Un nuovo spettro continua ad aggirarsi per l'Europa: la deflazione.

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Si parla di deflazione quando per vari trimestri consecutivi si registra un calo dei prezzi al consumo e come vedremo ciò costituisce non solo un serio problema per l’economia  di un paese a sistema capitalista ,ma ha delle ricadute estremamente negative anche direttamente sul reddito e sulla stessa capacità di acquisto delle retribuzioni dei lavoratori.


Il dato a consuntivo di inizio gennaio 2017 dell’ISTAT ci conferma che per il 2016 si è avuta una variazione negativa dei prezzi del -0,1% rispetto all’anno precedente, che se a prima vista può rappresentare una lieve flessione, invece sull’ammontare complessivo dei consumi tale variazione ha un effetto destabilizzante strutturale sull’economia italiana. Vogliamo sottolineare che tale andamento annuale di variazione negativa dei prezzi non si registrava dal lontano 1959. Primo perché ciò misura un nuovo fallimento delle politiche della BCE che dichiaratamente dovrebbero puntare al rilancio dei consumi e quindi ad avvicinare l’inflazione a quel 2% che ci dicono dovrebbe essere l’indice per una crescita economica equilibrata.


Nel mese di dicembre 2016 in base alle stime preliminari Istat, l’indice nazionale dei prezzi al consumo registra un aumento dello 0,4% rispetto al mese precedente e dello 0,5% nei confronti di dicembre 2015.


Dopo 34 mesi di variazioni tendenziali negative, a dicembre 2016 i prezzi dei beni tornano a registrare una variazione positiva (+0,1% da -0,4% di novembre), mentre il dato percentuale  di aumento dei prezzi dei servizi è più evidente, portandosi a +0,9% (era +0,5% a novembre). Su base annua, rimangono tre i componenti deflattivi: comunicazioni (-3,1%) abitazioni ed energia (-1,9%) e istruzione (-0,9%). Pertanto tale piccola apparente crescita dei prezzi non può presupporre un trend positivo poiché tale effetto è dovuto principalmente all’aumento delle materie prime energetiche  ed inoltre non ci sono segnali di crescita della produzione e della componente salari che è l’unica che può agire sul potere d’acquisto e quindi sull’aumento delle capacità di consumo dei lavoratori.


Inoltre va segnalato  che nel 2016 i prezzi dei prodotti di largo consumo nella grande distribuzione sono calati, secondo Iri, mediamente dello 0,3/0,4%. I dati ufficiali ci evidenziano un trend all’aumento per i prezzi solo per caffè, olio e zucchero ma per il resto no. E se eventualmente gli aumenti ci saranno li vedremo in fase di distribuzione a partire dalla metà del 2017 .


Dal fronte dell’industria, si evidenziano dati per il biennio 2015/16per  l’industria casearia con un significativo tasso di deflazione, in parte attenuata dai prezzi del latte in aumento del 15-20% sul finale d’anno.


Va inoltre evidenziato che l’aumento dei prezzi del mese di dicembre 2016 è unicamente dovuto al balzo del prezzo della benzina che è ricaduto in aumenti generalizzati. Il fatto comunque fondamentale è che i dati generali dell’ISTAT di inizio 2017 evidenziano in maniera inequivocabile un calo dei prezzi al dettaglio per il 2016 con un crollo record dei consumi disattendendo completamente le previsioni della BCE e del Governo italiano che prevedevano una ripartenza delle spese dell’operatore famiglia, mentre si calcola che dal 2008 ad oggi la spesa per i consumi degli italiani è diminuita di oltre 80 miliardi di euro.


Nessuna quindi crescita dell’inflazione come previsto dal piano di rilancio dei consumi previsto dalla BCE, anzi l’immissione di liquidità monetaria andata prevalentemente palle banche non ha avuto alcun beneficio sugli indicatori strutturali macroeconomici , quindi sull’economia reale, il quantitative easing, dimostra miseramente il travolgente circolo vizioso innescato e autoalimentato dalle politiche della Troika pienamente attuate dal servile governo Renzi.


Dal punto di vista della “vita” dei lavoratori che significato assume la deflazione che ha un significato ovviamente contrario a quello dell’inflazione ? Se in Italia e nell’Unione  Europea non c’è crescita economica anzi è più bassa delle misere aspettative dei poteri centrali è ovvio che l’andamento dei prezzi scenda sotto lo 0%. Fallisce quindi uno dei compiti centrali della BCE che sarebbe quello di mantenere l’inflazione intorno al 2% , valore reputato dagli economisti convenzionali come una base sana per il rilancio del’economia. La deflazione quindi in senso generale è uno degli indicatori centrali che segnala una economia debole , cioè la percezione immediata della crisi sistemica . e’ ovvio che come primo impatto emotivo sembrerebbe che il calare dei prezzi sia un fatto di per sé positivo. Ma se i prezzi calano significa ch el’effetto e, e non la causa che è quella della sovrapproduzione e sovraccumulazione, della crisi sistemica sia quello della diminuzione del potere di acquisto salariale e inoltre nella spirale della crisi ciò significa che i salari e stipendi caleranno ulteriormente ed anche quelli delle cosiddette classi medie che ormai sono diventati settori non più protetti.


La cosiddetta psicologica delle attese o delle aspettative ci evidenzia chiaramente che in fase di prezzi decrescenti il consumatore aspetta per effettuare un acquisto anche di medio significato economico poiché prevede una ulteriore diminuzione del suo costo, e l’imprenditore non affronterà mai un serio investimento in capitale fisso od anche in produzione intermedia avendo la percezione che aspettando qualche mese possa avere prezzi migliori e più vantaggiosi. Tale rinvio dei cosiddetti consumi intermedi imprenditoriali e dei consumi finali delle famiglie crea ulteriore deflazione in una spirale che disincentiva la propensione a spendere quindi al consumo.


Smentiamo anche un’altra ridicola ipotesi dei poteri economici, cioè quella che la deflazione fa calare gli interessi sul debito, poiché se i salari e i prezzi si abbassano ad esempio le rate su un mutuo o su un prestito a medio-lungo termine rimangono pressoché immutate anche se contratte ad interessi variabili, e ciò vale in particolare per il grande debitore Stato poiché gli interessi sul debito sono fissi e stabiliti in fase iniziale del contratto, invece in una  apparentemente  contraddizione i forti debiti pubblici come quelli dell’Italia ottengono invece vantaggi proprio nei periodi  inflattivi, con prezzi e stipendi in ascesa in quanto gli interessi fissi sul debito  sono più facilmente esigibili.


Infatti il rapporto debito pubblico PIL cala solo se aumentano i prezzi al consumo poiché aumenta il denominatore cioè il PIL e quindi il rapporto si abbassa, mentre in periodo deflattivo l’unica maniera per abbassare l’indicatore debito pubblico PIL è dato o dalla capacità di abbattere il debito o attraverso un forte aumento del PIL.


 La dinamica perversa delle politiche della Troika quindi fa si che la crisi di sovrapproduzione si combatta con tagli del salario diretto , indiretto e differito ; ciò comporta minore capacità di acquisto quindi abbassamento dei consumi e deflazione e ne consegua un ulteriore processo di sovrapproduzione che ne fa derivare meno profitti industriali, meno investimenti produttivi, maggiore ricorso agli investimenti che non creano ricchezza reale ( finanziario e immobiliare) con il relativo scoppio di bolle speculative, il tutto in una spirale di calo dei prezzi dei beni di consumo che rallenta in continuazione.


Le politiche imprenditoriali a questo punto in un contesto di diminuzione del margine di fatturato e dei profitti continuano ad essere quelli dei licenziamenti, attacco al costo del lavoro, abbattimento dello Stato sociale, aumento della precarietà e dei disoccupati, tentativo di far denaro per le imprese attraverso le rendite accrescendo sempre più il circolo vizioso della deflazione e distruzione delle capacità produttive e di crescita economica di una economia capitalista dovuta anche all’effetto dell’arretramento della domanda e quindi del PIL.


La deflazione quindi è completamente altro da ciò che si vuole rappresentare come condizione positiva per i lavoratori, primo perché nell’attuale caso non è dovuta a una riduzione dei costi di produzione del fattore capitale ma soltanto dalla contrazione retributiva del fattore lavoro; inoltre è oggi innescata da un processo altamente concorrenziale sia a livello micro, cioè fra imprese,sia a livello macro cioè tra Stati o poli geoeconomici , cioè quella che da molti anni chiamiamo competizione globale. Tale contesto deflattivo quindi ha solo un impatto negativo non solo per la riduzione della produzione in economia reale con la conseguente spirale di sovrapproduzione ma anche e per il conseguente forte ridimensionamento del potere di acquisto salariale dei tagli all’occupazione e allo Stato sociale, l’aumento della precarietà e dei tagli salariali.


A cura del Centro Studi USB -  Cestes-Proteo