Prato. Ci sono molti modi di uccidere un uomo...solo pochi sono proibiti nel nostro Stato

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Si continua a morire sul lavoro, è così che sono morti i sette operai cinesi schiacciati e arsi nella fabbrica Teresa a Prato. Lavoratori uccisi dal profitto che li aveva ridotti in semi schiavitù, una condizione necessaria per produrre vestiti a pochi centesimi di euro.  Non è un incidente di percorso, Prato è un centro di produzione tessile di rilevanza europea, e la fabbrica in questione come le altre del polo toscano sono perfettamente inserite nella filiera produttiva. Il capannone sorge, infatti, nell’area del Macrolotto, un polo industriale realizzato dall’amministrazione di centro sinistra durante gli anni ottanta. La proprietà di questi stabili è d’imprenditori italiani, altrettanto vero è che questi lager sono sotto gli occhi di tutti,  gli amministratori locali e le alte cariche dello Stato non possono assolutamente far finta di non sapere.

Nessuno si può nascondere dietro alla nazionalità del padrone e degli operai sottraendosi quindi alle responsabilità.  Questa fabbrica e le condizioni dei suoi operai erano sconosciute al pari delle altre fabbriche lager sparse in tutte le regioni italiane. Questo delle fabbriche lager è  un fenomeno in crescita, da  queste manifatture, dove l’intensità dello sfruttamento raggiunge livelli di brutalità, escono merci a prezzi competitivi. In ogni caso né gli operai cinesi a Prato, né le merci da loro prodotte, né i loro aguzzini sono dei fantasmi.

Tantomeno lo sono i profitti che per buona parte sono reinvestiti in altre officine e attività in Italia o depositati nelle banche italiane. Aziende come quella di Prato, saranno pure gestite da padroni cinesi, ma sono strettamente legate al tessuto industriale e commerciale in cui operano.  In molti casi sono aziende che operano per conto di grandi ditte italiane o per multinazionali. Siamo di fronte ad una sorta di delocalizzazione che avviene all’interno dell’Europa, dove intorno ai poli industriali, in questo caso tessile, cresce un sistema di fabbrichette che abbattono i costi dei semi lavorati basandosi su un modo di produzione semischiavistico. Un modello simile lo trovano nei bassi di Napoli, nei poli tessili e calzaturieri in Veneto, Marche, Abruzzo e in altre Regioni, dove si sfruttano indifferentemente lavoratori italiani e stranieri. Altrettanto accade negli altri poli industriali europei, tanto al centro che alla periferia dell’Unione Europea.

In questi  giorni successivi al massacro dei lavoratori di Prato, anziché riconoscere che si tratta di una tendenza riscontrabile su scala internazionale, i mass media hanno fatto loro la menzogna che circoscrive lo sfruttamento al solo micro-mondo dell’immigrazione cinese.

Questo tipo di sfruttamento non potrebbe sopravvivere se non fosse inserito nel sistema produttivo, se non potesse riprodursi grazie a commesse, senza avere tolleranza, e agibilità da parte delle istituzioni.

Nel corso degli anni i governi di centro sinistra e di centro destra con la scusa di ridurre i costi, a loro dire improduttivi, della spesa pubblica hanno scientemente ridotto il sistema di verifica e di vigilanza sul lavoro. Rispondendo all’esigenza di competitività degli industriali, i governi, con l’avvallo di CGIL, CISL e UIL hanno ridotto drasticamente mezzi, fondi e personale ispettivo del Ministero del Lavoro, dell’INPS e dell’INAIL.

Lo smantellamento del personale ispettivo, lascia mano libera agli industriali, oggi alla luce della strage di Prato, dell’aumento dei morti e degli incidenti sul lavoro, escono rafforzate  le ragioni e la mobilitazione fatta in questi anni dall’Unione Sindacale di Base a difesa del settore pubblico.

Dall’altra parte, non è un caso se la classe dirigente italiana ed europea mantiene una costante pressione repressiva e razzista contro i lavoratori migranti. Leggi come la Napolitano Turco, prima e la Bossi Fini poi, negano l’accoglienza e i più elementari diritti di cittadinanza. Un’architettura giuridica che spinge ai margini della società uomini e donne arrivati in Europa in cerca di un lavoro, li criminalizza e li mette nelle mani di caporali e imprenditori.  Aziende italiane e multinazionali impongono ai lavoratori migranti nei cantieri, nelle fabbriche, nelle aziende agricole e nella distribuzione di merci, rapporti di lavoro clandestini, fuori da ogni regola, pericolosi e con salari da fame.

La logica del profitto sta producendo un aggravamento drammatico e generale delle condizioni dei lavoratori. I sette operai di Prato allungano la dolorosa lista dei morti sul lavoro, anche questi senza nazionalità, semplicemente lavoratori, donne e uomini usciti di casa per un salario e mai più rientrati. Morti che si aggiungono alla strage infinita dei migranti affogati nel Mediterraneo, mentre fuggivano dai loro paesi sconvolti dalle guerre e dal neocolonialismo.

Come USB lo abbiamo ripetuto più volte e in ogni sede; questa barbarie non si contrasta con le parole, in molti casi ipocrite e di circostanza, come quelle pronunciate dalle alte cariche istituzionali, si affronta con l’azione organizzata e cosciente dei lavoratori, di nuovo né italiani né migranti. Semplicemente lavoratori uniti contro la barbarie di un capitalismo sempre più in crisi e sempre più violento.

 

Ci sono molti modi di uccidere un uomo

...gli si può infilare un coltello nella pancia, togliere il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra, ecc.
Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro stato.

Berthold Brecht