Cos'altro c'è da attendere?
Le agenzie di rating impazzano e decidono le sorti dei Paesi, i creditori - banche, fondi speculativi, finanzieri ecc. – bussano violentemente alla porta e ci ricordano che a febbraio dovremo pagare ben 45 miliardi di interessi sul debito pubblico, la Germania ci spiega, con fare compito ma risoluto, che sono cazzi nostri come uscire dalla crisi (alla faccia dell’“Unione” Europea), il neo governatore della BCE ci avverte che la situazione è gravissima e, ad esclusione dei tassisti, nessuno apre bocca, sembra non accadere nulla.
Ma che sta succedendo a questo paese? Sembra che tutti si siano ritirati in un’illusoria difesa del proprio, in attesa che succeda il disastro annunciato, quasi un generale “io speriamo che me la cavo”.
La stampa, legata tutta a doppio filo a quelle forze politiche così rissose fino a due mesi fa ed oggi concordi nel sostenere i banchieri della Trilateral, ci seppellisce ogni giorno di notizie rassicuranti, ci presenta un governo dall’aplomb inglese che trova ascolto tra i grandi d’Europa, che sa parlare ai mercati.
Le privatizzazioni (le chiamano liberalizzazioni perché fa meno stridore) stanno per distruggere quel che rimane dell’intervento pubblico in tema di energia, di acqua, di trasporti e tutti parlano delle licenze dei taxi o delle farmacie come se la loro moltiplicazione fosse in grado di dare una spinta al paese o far aumentare il PIL. Quelle sui tassisti e sulle farmacie hanno principalmente una ragione ideologica – il trionfo del libero mercato sugli egoismi di pochi -, quelle sui trasporti, sull’energia, sull’acqua hanno invece fondamento economico, eccome se ce l’hanno!
La parte costosa rimane a noi, quella fruttuosa va in pasto ai padroni e al capitale.
Nelle ferrovie ad esempio l’unica cosa che rimarrebbe pubblica è la gestione della Rete, cioè quella che necessita di continui investimenti in manutenzione, di migliorie, di adeguamenti alle normative europee, cioè tutto ciò su cui è necessario spendere ed investire continuamente. Agli altri il compito di far soldi, business, affari. E’ un po’ come è stato e continua ad essere con la vendita delle proprietà statali e degli enti locali, noi le abbiamo pagate e mantenute, ora le svendono a quattro soldi perché c’è bisogno di ripianare il debito e gli speculatori si arricchiscono, fanno affari.
Intanto sulle buste paga di febbraio scattano gli aumenti dell’Irpef locale (con stangate che per la loro pesantezza saranno addirittura ritirati a rate!), l’inflazione è raddoppiata grazie all’aumento dell’IVA e del petrolio con conseguenti aumenti stratosferici di benzina, riscaldamento, elettricità, gas, trasporti pubblici, beni alimentari e di massa, eccetera, eccetera.
In questo idilliaco scenario le organizzazioni sindacali complici – CGIL, CISL UIL e UGL – non riescono a pensare ad altro che a ritrovare la perduta unità per tuonare verso il governo chiedendo a gran voce di essere ascoltati per fare un altro “patto sociale” in cui strappare pezzetti infinitesimali di potere per le loro organizzazioni, non certo per i lavoratori.
C’è insomma la necessità impellente di invertire questa tendenza all’irrimediabilità della crisi, alla inevitabilità del pagamento di un debito che non è nostro (semmai siamo tutti creditori), all’ineluttabilità del pagamento del rovesciamento della crisi sulle nostre vite.
Cos’altro c’è da attendere?
C’è bisogno di riandare in piazza, di lottare, di rendere visibile la nostra assoluta alterità a queste scelte, la profonda convinzione che il debito non debba essere pagato e che la cura è peggio della malattia, soprattutto perché la malattia è del loro sistema.
Scioperare e manifestare il 27 gennaio insieme al sindacato indipendente e conflittuale per aprire una nuova stagione, prima che sia troppo tardi.